Un po di Storia Laverda
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Le moto anni Settanta
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La competizione alla Laverda !
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Nasce al Salone di Milano nel 1969 il sogno tutto italiano di una maxi in grado di far girare la testa a tutti gli appassionati. Tre anni dopo arriva sul mercato: stiamo parlando della Laverda 1000. Una moto indimenticabile della produzione italiana, nonchè la più potente degli anni Settanta. Ripercorriamone brevemente la storia attraverso le versioni che nel tempo ne hanno decretato il successo.
Prendete il solido bicilindrico monoalbero 4 tempi raffreddato ad aria della Laverda SF 750, copia maggiorata dell’Honda Hawk 305 destinata al mercato americano, aggiungetevi di soppiatto un bel cilindro in più ed ecco per magia la Laverda 1000. Maxi fra le maxi degli anni Settanta e uno dei modelli di maggior successo nella storia della Casa italiana, la 1000 è rimasta in listino per più di dieci anni, è stata costruita in più di 12.000 esemplari e in diverse versioni, fino alla definitiva chiusura della fabbrica. Quando alla fine degli anni 60 parte il progetto della tre cilindri, a Breganze gli affari vanno a gonfie vele. La 650-750 bicilindrica si vende senza problemi e la Laverda sta costruendosi una solida reputazione fra i motociclisti più sportivi, grazie anche alle buone prestazioni della versione più spinta, la celebre SFC dei primi anni 70, protagonista nelle gare di durata.
Logico quindi puntare all’ampliamento verso l’alto della gamma, in previsione di un ulteriore incremento di prestazioni e cilindrata nel settore delle supersportive. Il primo prototipo della nuova moto prende vita all’inizio del 1969 e, se venisse lanciato subito sul mercato, la Laverda 1000 sarebbe la prima maxi a sfondare il tetto dei 750 cc, visto dai Costruttori come una sorta di Colonne d’Ercole oltre le quali è estremamente rischioso avventurarsi. Purtroppo però, come spesso succede in Italia, la moto ha una gestazione lunga e laboriosa. Viene presentata al Salone di Milano del 1969, ma la sua versione definitiva è pronta solo alla fine del 1971 ed entra in produzione nella primavera successiva, quando ormai le prime Kawasaki Z1 900 hanno già raggiunto i concessionari e superato le fatidiche Colonne…
Il primo motore ha alesaggio per corsa 75x74 mm (cilindrata totale 980,7 cc), distribuzione monoalbero comandata da catena duplex sul lato destro del motore, cambio a 5 rapporti con comando sulla destra, accensione a dinamo-spinterogeno con bobina singola per ogni cilindro e anticipo automatico. La moto pesa 235 kg, ha una potenza max dichiarata di 75 CV a 6.700 giri ed è accreditata di una velocità max di 205 km/h. Ma in Laverda non sono ancora soddisfatti e decidono di stravolgere tutto.
Il progetto del nuovo tre cilindri incontrò inizialmente qualche difficoltà. Il motore doveva riprendere esteticamente il bicilindrico, con le alette di raffreddamento molto ravvicinate, ma sorgono dei grossi problemi durante la realizzazione delle prime fusioni che spingono subito i tecnici a fare marcia indietro. Inoltre nel 1970 la distribuzione diventa bialbero comandata da una cinghia dentata di gomma, sempre collocata sul lato destro.
La cartella della distribuzione è però piuttosto bruttina da vedersi e in Laverda decidono di stravolgere tutto.
Così prende vita un tre cilindri inedito. Nuove fusioni, nuova forma del blocco cilindri inclinato in avanti di 20° (anziché 25° come sulla 750) per ridurre l’interasse della moto, distribuzione bialbero comandata da catena al centro dei cilindri, fra il primo e il secondo partendo da destra.Una particolarità del motore (così come sui bicilindrici S e SF) è quella di avere le calotte delle camere di scoppio in ghisa annegate di fusione nella lega leggera della testata, una soluzione che consente di ridurre al minimo i danni in caso di rottura delle valvole e i problemi di durata delle sedi stesse. Alesaggio e corsa sono superquadre (75x74 mm per una cilindrata totale di 980,76 cc), il rapporto di compressione è 9:1, la frizione multidisco in bagno d’olio, il cambio a cinque rapporti con ingranaggi a denti dritti e innesti frontali, accensione elettronica Bosch con i pick-up montati dietro il volano.
Ano mala la collocazione delle manovelle, con quelle laterali a 360° e quella centrale a 180°. In questo modo si riducono le vibrazioni e i pericoli di flessione delle estremità dell’albero motore che, a causa della collocazione quasi centrale della catena di distribuzione, è piuttosto lunghetto. Questa soluzione fa sì che la sonorità di scarico della Laverda 1000, sia quella dei primi esemplari con lo scarico 3 in 1 sia dei successivi con il 3 in 2, risulti piuttosto anomala. Non assomiglia affatto a quella dei classici tre cilindri britannici dell’epoca (Triumph Trident e BSA Rocket 3, che hanno invece le manovelle a 120°), ma sembra piuttosto il rumore di un quattro cilindri che funziona a tre. Esteticamente invece la nuova tre cilindri vista a Milano è una moto estremamente riuscita, con la linea dominata dal massiccio propulsore, imbrigliato da un telaio doppia culla in tubi d’acciaio e sovrastato dal serbatoio da 19 litri che nei primi 50 esemplari viene realizzato in vetroresina prima di passare alla più convenzionale (e sicura...) lamiera.
Freni e sospensioni sono mutuati dalla serie SF con forcella telescopica Ceriani da 35 mm, doppio ammortizzatore idraulico regolabile sempre della Ceriani e freni a tamburo doppia camma da 230 mm (i celebri Super Freni brevetto Laverda che hanno fatto la loro comparsa dal 1970 su tutte le maxi di Breganze). Legittima la soddisfazione del clan Laverda alla presentazione della moto che ha tutte le carte in regola per ben figurare nell’affollato segmento delle maxi sportive. “Un cilindro in più non ci avrebbe creato alcun problema sia in fase di progettazione sia di realizzazione - dichiara Massimo Laverda in un’intervista rilasciata a Motociclismo nel 1972, in cui spiega la scelta del tre cilindri. - Poi non volevamo accodarci ai giapponesi, così abbiamo scelto la soluzione del tre cilindri ma per ovvie ragioni ci siamo proposti di non superare il peso della Honda 750 e le dimensioni trasversali del suo motore.
Debbo dire con soddisfazione che ci siamo riusciti, pur non avendo lesinato in fatto di robustezza e di passaggi d’aria nella testata e nel monoblocco dei cilindri onde garantire elevate doti di resistenza, durata e raffreddamento. Anzi, siamo addirittura rimasti sotto i limiti della Honda di 5 kg per quanto riguarda il peso e di due cm per quanto riguarda la larghezza del motore. La distribuzione bialbero non solo presenta un maggior pregio tecnico, ma assorbe una quota di potenza nettamente inferiore, addirittura del 50%”.
Per il suo nuovo “mostro” la Laverda dichiara una potenza di 80 CV a 7.200 giri, una coppia di 8,6 kgm a 4.200 giri e una velocità massima superiore ai 210 km/h.
Quanto basta per far sognare i motociclisti dall’animo più sportivo, disposti a chiudere un occhio su alcuni particolari della macchina migliorabili, come le finiture spartane - specie dei primi esemplari - le sospensioni inevitabilmente rigide viste le prestazioni e il peso della moto (però anche gli utenti delle maxi giapponesi di quegli anni si lamentavano, ma per il motivo opposto), la frizione “granitica” e la scarsa maneggevolezza, soprattutto alle basse andature. Anche le bizze all’accensione riscontrate in diversi esemplari della prima serie, dovute ad un tiristore dell’accensione elettronica fornita dalla Bosch che va in tilt per l’umidità, passano in secondo piano davanti alle prestazioni di cui la 1000 tre cilindri è capace.
Per ò i capricci dell’accensione costano alla Laverda una campagna di richiamo per la sostituzione del particolare, che non sono il massimo dal punto di vista dell’immagine per un modello appena lanciato sul mercato.Nelle prove strumentali dell’epoca, la prima versione riesce a raggiungere una velocità di punta di 209,74 km/h, con velocità di uscita dai 400 metri (percorsi in 12”210) di 174,557 km/h, contro i 212,6 km/h della sua rivale più diretta - la Kawasaki Z1 900 - che percorre i 400 metri in 12”153 con velocità di uscita di 178,217 km/h. Unica nota dolente della 1000 è il suo prezzo di vendita: quando arriva sul mercato, nel 1972, costa 1.593.000 IVA compresa.
Solo l’MV Agusta 750 S con le sue 1.980.000 lire è più cara, mentre tutto il resto della concorrenza è più abbordabile. La Kawasaki Z1 costa 1.550.000 lire, la Moto Guzzi V7 Sport 1.480.000 lire, la Triumph Trident 1.350.000, la Suzuki GT 750 1.365.000 lire, la Honda CB750 1.280.000 lire, la BMW R 75/5 1.240.000 e la Ducati S “solo” 1.180.000 lire.
Non ostante l’handicap del prezzo i motociclisti risultano gradire la nuova arrivata, tant’è vero che le vendite della Laverda quasi raddoppiano nel giro di un paio d’anni. Se nel 1971 la Casa di Breganze aveva piazzato sul mercato italiano 1.915 motociclette, l’anno successivo si passa a 3.082 e nel solo primo semestre del 1973, grazie ai 1.275 esemplari venduti, si supera addirittura il consuntivo totale del 1970 (1.096). Ma è all’estero che la Laverda 1000 riscuote i maggiori consensi, soprattutto in Inghilterra dove trova un fertile terreno in un mercato che ha dimostrato di apprezzare i motori tre cilindri frontemarcia (vedi Triumph e BSA). Il mercato d’oltremanica è tenuto nella massima considerazione, al punto che è proprio l’importatore inglese Dave Slater a suggerire il nome Jota, preso in prestito da una danza spagnola, per identificare una delle ultime evoluzioni della tre cilindri veneta.
Il motociclista che sceglie le Laverda negli anni Settanta è quello vinto dal fascino delle moto “temprate” dalle corse sulle piste di tutta Europa, che vuole vedere nella propria due ruote la moto che tutte le domeniche gareggia e vince in pista, secondo una filosofia terribilmente di moda anche ai giorni nostri: la nuova 1000 Jota del 1981 è perfetta per il palato di questo genere di "smanettoni".
“Alla nuova Jota 1000 - scrive Motociclismo alla sua presentazione - sono stati apportati numerosi aggiornamenti meccanici e stilistici che, unitamente alla ciclistica di prim’ordine, ne fanno una sportiva di gran rango. Nuovo il cupolino fissato al telaio, più protettivo e filante del precedente come pure il codino e la sella. La testa è stata completamente ridisegnata con condotti e valvole maggiorate; la frizione è comandata idraulicamente come sulla 1200, mentre accensione elettronica e alternatore sono stati separati e disposti uno per parte sotto i carter laterali. La Jota 1000 gommata Pirelli Phantom costa 5.702.500 lire chiavi in mano. Per questo modello è disponibile un kit di potenziamento (alberi a camme, pistoni, complesso di scarico), venduto a lire 367.700, che ne eleva la potenza da 75 a 85 CV e la velocità massima da 210 a 230 km/h (dati Casa)”.
La novità maggiore però è nel motore: viene abbandonato il manovellismo tradizionale (manovelle laterali a 360°, centrale a 180°) in favore di un più classico a 120°, già sperimentato fin dal 1974 sulle moto ufficiali che partecipano al Campionato europeo di Endurance. In questo modo la Laverda 1000 perde la sua tipica sonorità di scarico e guadagna… in vibrazioni, parzialmente compensate dal montaggio elastico del motore sul telaio con silent-block. Un altro “colpo” alla tradizione è il passaggio a sinistra del pedale del cambio (optional sulla vecchia Jota 180°) che uniforma la maxi di Breganze al resto della produzione sportiva mondiale.
La Jota 1000 120° mantiene inalterate tutte le caratteristiche delle sue progenitrici: è una moto sportiva capace di prestazioni al vertice della categoria e dal prezzo sempre superiore a quello delle altre maximoto. Nel 1981 costa 6.598.000 lire, contro le 6.493.000 lire della Suzuki GS 1000, le 6.405.000 lire della Honda CB 900 F2, le 6.372.000 della Kawasaki Z 1000 J, le 5.595.000 della Moto Guzzi Le Mans III e le 5.535.000 lire della Ducati 900 SS.
La Jota regge bene il confronto con la concorrenza e resta in produzione fino al 1982, quando viene sostituita dalla 1000 RGS (Real Gran Sport), capostipite di una nuova generazione di maxi che dà un taglio abbastanza netto sotto il profilo estetico ai modelli precedenti cercando comunque di mantenere, a partire dal nome, la tradizione sportiva che ha reso celebre le Laverda tre cilindri. È infatti caratterizzata da una semicarenatura profilata che lascia in vista il celebre motore e dalla sella con codino monoposto asportabile. La moto ha come particolarità quella di avere il tappo del carburante collocato nel lato destro del cupolino, collegato al serbatoio da una “proboscide” solidale allo stesso e nascosta dal rivestimento interno in plastica.
Con questo nuovo modello (in seguito prodotto anche nelle versioni RGA, RGA/Jota, Executive, RGS Corsa e 1000 SFC), la tre cilindri resta in produzione fino alla chiusura degli stabilimenti di Breganze.A testimonianza del grande successo ottenuto da questa maxi, basti ricordare che in 14 anni di onorata carriera la 1000 tre cilindri è stata prodotta complessivamente in 12.550 esemplari in tutte le sue varianti e che ancora oggi mantiene intatto il suo fascino fra gli appassionati di tutto il mondo. Ne fanno fede i moltissimi siti Internet Laverda con sezioni a lei dedicate e il gran numero di esemplari che (soprattutto in Inghilterra) si possono incontrare tuttora per le strade.
La cronologia
1969
Nasce il primo prototipo
1971
Al salone di Milano viene presentata la versione definitiva
1972
Inizia la produzione della 1000
1974
Siamo alla seconda serie: vengono adottati freni anteriori a disco della Brembo e un piccolo radiatore dell’olio,
1976
Vien presentata la terza serie con pochi e sapienti ritocchi che interessano la meccanica e la ciclistica: arrivano il freno a disco posteriore, le ruote in lega a 5 razze (realizzate dalla FLAM di Gallarate, una fabbrica del gruppo Laverda) e un codino posteriore in vetroresina dotato di vano portaoggetti.
1977
La 1000 cede il posto alla 1000 Jota: cambia il telaio nella zona d’attacco degli ammortizzatori, e il cupolino è solidale al telaio con incorporate le frecce (le stesse dell’Autobianchi A 112); per la prima volta nella storia della produzione motociclistica mondiale compare la frizione idraulica
1978
Vengono presentate la 1200 T e la 1200 TS, modelli di impostazione più turistica nati con l’intento di ampliare la gamma che, però, in Italia non riscuotono un gran successo di vendite.
1982
Arriva la 1000 RGS: la moto dà un taglio abbastanza netto sotto il profilo estetico rispetto ai precedenti modelli mantenendo comunque la tradizione sportiva del Marchio
1986
Chiude lo stabilimento di Breganze, e con lui finisce anche la storia della Laverda tre cilindri
Prendete il solido bicilindrico monoalbero 4 tempi raffreddato ad aria della Laverda SF 750, copia maggiorata dell’Honda Hawk 305 destinata al mercato americano, aggiungetevi di soppiatto un bel cilindro in più ed ecco per magia la Laverda 1000. Maxi fra le maxi degli anni Settanta e uno dei modelli di maggior successo nella storia della Casa italiana, la 1000 è rimasta in listino per più di dieci anni, è stata costruita in più di 12.000 esemplari e in diverse versioni, fino alla definitiva chiusura della fabbrica. Quando alla fine degli anni 60 parte il progetto della tre cilindri, a Breganze gli affari vanno a gonfie vele. La 650-750 bicilindrica si vende senza problemi e la Laverda sta costruendosi una solida reputazione fra i motociclisti più sportivi, grazie anche alle buone prestazioni della versione più spinta, la celebre SFC dei primi anni 70, protagonista nelle gare di durata.
Logico quindi puntare all’ampliamento verso l’alto della gamma, in previsione di un ulteriore incremento di prestazioni e cilindrata nel settore delle supersportive. Il primo prototipo della nuova moto prende vita all’inizio del 1969 e, se venisse lanciato subito sul mercato, la Laverda 1000 sarebbe la prima maxi a sfondare il tetto dei 750 cc, visto dai Costruttori come una sorta di Colonne d’Ercole oltre le quali è estremamente rischioso avventurarsi. Purtroppo però, come spesso succede in Italia, la moto ha una gestazione lunga e laboriosa. Viene presentata al Salone di Milano del 1969, ma la sua versione definitiva è pronta solo alla fine del 1971 ed entra in produzione nella primavera successiva, quando ormai le prime Kawasaki Z1 900 hanno già raggiunto i concessionari e superato le fatidiche Colonne…
Il primo motore ha alesaggio per corsa 75x74 mm (cilindrata totale 980,7 cc), distribuzione monoalbero comandata da catena duplex sul lato destro del motore, cambio a 5 rapporti con comando sulla destra, accensione a dinamo-spinterogeno con bobina singola per ogni cilindro e anticipo automatico. La moto pesa 235 kg, ha una potenza max dichiarata di 75 CV a 6.700 giri ed è accreditata di una velocità max di 205 km/h. Ma in Laverda non sono ancora soddisfatti e decidono di stravolgere tutto.
Il progetto del nuovo tre cilindri incontrò inizialmente qualche difficoltà. Il motore doveva riprendere esteticamente il bicilindrico, con le alette di raffreddamento molto ravvicinate, ma sorgono dei grossi problemi durante la realizzazione delle prime fusioni che spingono subito i tecnici a fare marcia indietro. Inoltre nel 1970 la distribuzione diventa bialbero comandata da una cinghia dentata di gomma, sempre collocata sul lato destro.
La cartella della distribuzione è però piuttosto bruttina da vedersi e in Laverda decidono di stravolgere tutto.
Così prende vita un tre cilindri inedito. Nuove fusioni, nuova forma del blocco cilindri inclinato in avanti di 20° (anziché 25° come sulla 750) per ridurre l’interasse della moto, distribuzione bialbero comandata da catena al centro dei cilindri, fra il primo e il secondo partendo da destra.Una particolarità del motore (così come sui bicilindrici S e SF) è quella di avere le calotte delle camere di scoppio in ghisa annegate di fusione nella lega leggera della testata, una soluzione che consente di ridurre al minimo i danni in caso di rottura delle valvole e i problemi di durata delle sedi stesse. Alesaggio e corsa sono superquadre (75x74 mm per una cilindrata totale di 980,76 cc), il rapporto di compressione è 9:1, la frizione multidisco in bagno d’olio, il cambio a cinque rapporti con ingranaggi a denti dritti e innesti frontali, accensione elettronica Bosch con i pick-up montati dietro il volano.
Ano mala la collocazione delle manovelle, con quelle laterali a 360° e quella centrale a 180°. In questo modo si riducono le vibrazioni e i pericoli di flessione delle estremità dell’albero motore che, a causa della collocazione quasi centrale della catena di distribuzione, è piuttosto lunghetto. Questa soluzione fa sì che la sonorità di scarico della Laverda 1000, sia quella dei primi esemplari con lo scarico 3 in 1 sia dei successivi con il 3 in 2, risulti piuttosto anomala. Non assomiglia affatto a quella dei classici tre cilindri britannici dell’epoca (Triumph Trident e BSA Rocket 3, che hanno invece le manovelle a 120°), ma sembra piuttosto il rumore di un quattro cilindri che funziona a tre. Esteticamente invece la nuova tre cilindri vista a Milano è una moto estremamente riuscita, con la linea dominata dal massiccio propulsore, imbrigliato da un telaio doppia culla in tubi d’acciaio e sovrastato dal serbatoio da 19 litri che nei primi 50 esemplari viene realizzato in vetroresina prima di passare alla più convenzionale (e sicura...) lamiera.
Freni e sospensioni sono mutuati dalla serie SF con forcella telescopica Ceriani da 35 mm, doppio ammortizzatore idraulico regolabile sempre della Ceriani e freni a tamburo doppia camma da 230 mm (i celebri Super Freni brevetto Laverda che hanno fatto la loro comparsa dal 1970 su tutte le maxi di Breganze). Legittima la soddisfazione del clan Laverda alla presentazione della moto che ha tutte le carte in regola per ben figurare nell’affollato segmento delle maxi sportive. “Un cilindro in più non ci avrebbe creato alcun problema sia in fase di progettazione sia di realizzazione - dichiara Massimo Laverda in un’intervista rilasciata a Motociclismo nel 1972, in cui spiega la scelta del tre cilindri. - Poi non volevamo accodarci ai giapponesi, così abbiamo scelto la soluzione del tre cilindri ma per ovvie ragioni ci siamo proposti di non superare il peso della Honda 750 e le dimensioni trasversali del suo motore.
Debbo dire con soddisfazione che ci siamo riusciti, pur non avendo lesinato in fatto di robustezza e di passaggi d’aria nella testata e nel monoblocco dei cilindri onde garantire elevate doti di resistenza, durata e raffreddamento. Anzi, siamo addirittura rimasti sotto i limiti della Honda di 5 kg per quanto riguarda il peso e di due cm per quanto riguarda la larghezza del motore. La distribuzione bialbero non solo presenta un maggior pregio tecnico, ma assorbe una quota di potenza nettamente inferiore, addirittura del 50%”.
Per il suo nuovo “mostro” la Laverda dichiara una potenza di 80 CV a 7.200 giri, una coppia di 8,6 kgm a 4.200 giri e una velocità massima superiore ai 210 km/h.
Quanto basta per far sognare i motociclisti dall’animo più sportivo, disposti a chiudere un occhio su alcuni particolari della macchina migliorabili, come le finiture spartane - specie dei primi esemplari - le sospensioni inevitabilmente rigide viste le prestazioni e il peso della moto (però anche gli utenti delle maxi giapponesi di quegli anni si lamentavano, ma per il motivo opposto), la frizione “granitica” e la scarsa maneggevolezza, soprattutto alle basse andature. Anche le bizze all’accensione riscontrate in diversi esemplari della prima serie, dovute ad un tiristore dell’accensione elettronica fornita dalla Bosch che va in tilt per l’umidità, passano in secondo piano davanti alle prestazioni di cui la 1000 tre cilindri è capace.
Per ò i capricci dell’accensione costano alla Laverda una campagna di richiamo per la sostituzione del particolare, che non sono il massimo dal punto di vista dell’immagine per un modello appena lanciato sul mercato.Nelle prove strumentali dell’epoca, la prima versione riesce a raggiungere una velocità di punta di 209,74 km/h, con velocità di uscita dai 400 metri (percorsi in 12”210) di 174,557 km/h, contro i 212,6 km/h della sua rivale più diretta - la Kawasaki Z1 900 - che percorre i 400 metri in 12”153 con velocità di uscita di 178,217 km/h. Unica nota dolente della 1000 è il suo prezzo di vendita: quando arriva sul mercato, nel 1972, costa 1.593.000 IVA compresa.
Solo l’MV Agusta 750 S con le sue 1.980.000 lire è più cara, mentre tutto il resto della concorrenza è più abbordabile. La Kawasaki Z1 costa 1.550.000 lire, la Moto Guzzi V7 Sport 1.480.000 lire, la Triumph Trident 1.350.000, la Suzuki GT 750 1.365.000 lire, la Honda CB750 1.280.000 lire, la BMW R 75/5 1.240.000 e la Ducati S “solo” 1.180.000 lire.
Non ostante l’handicap del prezzo i motociclisti risultano gradire la nuova arrivata, tant’è vero che le vendite della Laverda quasi raddoppiano nel giro di un paio d’anni. Se nel 1971 la Casa di Breganze aveva piazzato sul mercato italiano 1.915 motociclette, l’anno successivo si passa a 3.082 e nel solo primo semestre del 1973, grazie ai 1.275 esemplari venduti, si supera addirittura il consuntivo totale del 1970 (1.096). Ma è all’estero che la Laverda 1000 riscuote i maggiori consensi, soprattutto in Inghilterra dove trova un fertile terreno in un mercato che ha dimostrato di apprezzare i motori tre cilindri frontemarcia (vedi Triumph e BSA). Il mercato d’oltremanica è tenuto nella massima considerazione, al punto che è proprio l’importatore inglese Dave Slater a suggerire il nome Jota, preso in prestito da una danza spagnola, per identificare una delle ultime evoluzioni della tre cilindri veneta.
Il motociclista che sceglie le Laverda negli anni Settanta è quello vinto dal fascino delle moto “temprate” dalle corse sulle piste di tutta Europa, che vuole vedere nella propria due ruote la moto che tutte le domeniche gareggia e vince in pista, secondo una filosofia terribilmente di moda anche ai giorni nostri: la nuova 1000 Jota del 1981 è perfetta per il palato di questo genere di "smanettoni".
“Alla nuova Jota 1000 - scrive Motociclismo alla sua presentazione - sono stati apportati numerosi aggiornamenti meccanici e stilistici che, unitamente alla ciclistica di prim’ordine, ne fanno una sportiva di gran rango. Nuovo il cupolino fissato al telaio, più protettivo e filante del precedente come pure il codino e la sella. La testa è stata completamente ridisegnata con condotti e valvole maggiorate; la frizione è comandata idraulicamente come sulla 1200, mentre accensione elettronica e alternatore sono stati separati e disposti uno per parte sotto i carter laterali. La Jota 1000 gommata Pirelli Phantom costa 5.702.500 lire chiavi in mano. Per questo modello è disponibile un kit di potenziamento (alberi a camme, pistoni, complesso di scarico), venduto a lire 367.700, che ne eleva la potenza da 75 a 85 CV e la velocità massima da 210 a 230 km/h (dati Casa)”.
La novità maggiore però è nel motore: viene abbandonato il manovellismo tradizionale (manovelle laterali a 360°, centrale a 180°) in favore di un più classico a 120°, già sperimentato fin dal 1974 sulle moto ufficiali che partecipano al Campionato europeo di Endurance. In questo modo la Laverda 1000 perde la sua tipica sonorità di scarico e guadagna… in vibrazioni, parzialmente compensate dal montaggio elastico del motore sul telaio con silent-block. Un altro “colpo” alla tradizione è il passaggio a sinistra del pedale del cambio (optional sulla vecchia Jota 180°) che uniforma la maxi di Breganze al resto della produzione sportiva mondiale.
La Jota 1000 120° mantiene inalterate tutte le caratteristiche delle sue progenitrici: è una moto sportiva capace di prestazioni al vertice della categoria e dal prezzo sempre superiore a quello delle altre maximoto. Nel 1981 costa 6.598.000 lire, contro le 6.493.000 lire della Suzuki GS 1000, le 6.405.000 lire della Honda CB 900 F2, le 6.372.000 della Kawasaki Z 1000 J, le 5.595.000 della Moto Guzzi Le Mans III e le 5.535.000 lire della Ducati 900 SS.
La Jota regge bene il confronto con la concorrenza e resta in produzione fino al 1982, quando viene sostituita dalla 1000 RGS (Real Gran Sport), capostipite di una nuova generazione di maxi che dà un taglio abbastanza netto sotto il profilo estetico ai modelli precedenti cercando comunque di mantenere, a partire dal nome, la tradizione sportiva che ha reso celebre le Laverda tre cilindri. È infatti caratterizzata da una semicarenatura profilata che lascia in vista il celebre motore e dalla sella con codino monoposto asportabile. La moto ha come particolarità quella di avere il tappo del carburante collocato nel lato destro del cupolino, collegato al serbatoio da una “proboscide” solidale allo stesso e nascosta dal rivestimento interno in plastica.
Con questo nuovo modello (in seguito prodotto anche nelle versioni RGA, RGA/Jota, Executive, RGS Corsa e 1000 SFC), la tre cilindri resta in produzione fino alla chiusura degli stabilimenti di Breganze.A testimonianza del grande successo ottenuto da questa maxi, basti ricordare che in 14 anni di onorata carriera la 1000 tre cilindri è stata prodotta complessivamente in 12.550 esemplari in tutte le sue varianti e che ancora oggi mantiene intatto il suo fascino fra gli appassionati di tutto il mondo. Ne fanno fede i moltissimi siti Internet Laverda con sezioni a lei dedicate e il gran numero di esemplari che (soprattutto in Inghilterra) si possono incontrare tuttora per le strade.
La cronologia
1969
Nasce il primo prototipo
1971
Al salone di Milano viene presentata la versione definitiva
1972
Inizia la produzione della 1000
1974
Siamo alla seconda serie: vengono adottati freni anteriori a disco della Brembo e un piccolo radiatore dell’olio,
1976
Vien presentata la terza serie con pochi e sapienti ritocchi che interessano la meccanica e la ciclistica: arrivano il freno a disco posteriore, le ruote in lega a 5 razze (realizzate dalla FLAM di Gallarate, una fabbrica del gruppo Laverda) e un codino posteriore in vetroresina dotato di vano portaoggetti.
1977
La 1000 cede il posto alla 1000 Jota: cambia il telaio nella zona d’attacco degli ammortizzatori, e il cupolino è solidale al telaio con incorporate le frecce (le stesse dell’Autobianchi A 112); per la prima volta nella storia della produzione motociclistica mondiale compare la frizione idraulica
1978
Vengono presentate la 1200 T e la 1200 TS, modelli di impostazione più turistica nati con l’intento di ampliare la gamma che, però, in Italia non riscuotono un gran successo di vendite.
1982
Arriva la 1000 RGS: la moto dà un taglio abbastanza netto sotto il profilo estetico rispetto ai precedenti modelli mantenendo comunque la tradizione sportiva del Marchio
1986
Chiude lo stabilimento di Breganze, e con lui finisce anche la storia della Laverda tre cilindri
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