Aprono i primi Supermercati in Italia
1956 - Apre il primo reparto alimentare a insegna Standa annesso al preesistente grande magazzino con stessa insegna a Napoli in via Diaz.
1957 - Apre il primo supermercato di una catena di GDO. Si trovava a Milano in viale Regina Giovanna, la società si chiamava Supermarkets Italiani che oggi è meglio nota come Esselunga. Questo punto di vendita, quasi 50 anni dopo l'apertura, è stato ceduto al Gruppo Rewe con insegna Billa ed infine al gruppo Carrefour. |
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ANNI SESSANTA
aspetta alcuni secondi che si carica il video Il biennio successivo, risultati notevoli li conseguì la classe operaia. I problemi principali che diedero origine agli scioperi del 1968 erano l’appesantimento dei carichi di lavoro, l’accelerazione del ritmo di produzione, a fronte della diminuzione dei salari reali (bloccati dalla manovra deflazionistica del 1963-4). L’operaio che entra in sciopero nel 1968 è però una figura diversa da quella del passato: la composizione della classe operaia ha visto, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, il progressivo aumento degli "addetti macchina", ossia di operai non specializzati che svolgono mansioni rigidamente esecutive, non di rado assai logoranti fisicamente. Questa figura operaia (l’"operaio massa") ha soppiantato in FIAT l’operaio di mestiere, passando dal 43,6% della forza-lavoro nel 1953 al 70% della fine degli anni Sessanta. Su di essa aveva puntato Valletta, contando sulla minore consapevolezza e coscienza di classe di questa categoria di operai. La novità del biennio 1968-9 sta tutta qui: nel fallimento di quel progetto, e nella creazione - proprio a partire dall’operaio massa - di una nuova soggettività di classe. Questa soggettività si espresse, il 30 marzo 1969, con uno sciopero che colse di sorpresa gli stessi sindacati e paralizzò gli stabilimenti FIAT. |
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Nel corso del 1969-70 le azioni di protesta si intensificarono assumendo caratteristiche inedite sia sotto il profilo degli obiettivi (che cominciarono a riguardare anche le condizioni di vita fuori della fabbrica), che sotto quello delle modalità: in particolare, il blocco della catena di montaggio fece leva sulla rigidità stessa dell’organizzazione fordista del lavoro, facendone il più efficace strumento di lotta. Le lotte dell’"autunno caldo" consentirono di conquistare tanto il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (nel dicembre 1969), quanto lo Statuto dei lavoratori (1970) ed il riconoscimento dei Consigli di fabbrica (1971).
Dal maggio 1963 il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, per controllare l’inflazione (in realtà per bloccare la dinamica salariale), si fece promotore di una stretta creditizia che causò la prima recessione dagli anni Cinquanta. Ma già nel biennio 1966 e 1967 la FIAT tornava ad inanellare risultati notevoli: era suo il 21% della produzione a livello di Mercato comune europeo, ed il 6% di quella mondiale; nel complesso la FIAT era al 5° posto a livello mondiale, dopo le americane Ford, General Motors e Chrysler e la tedesca Volkswagen. Non per questo perse le vecchie abitudini protezionistico-monopolistiche: ad es., nel 1966 tentò senza successo di bloccare in tutti i modi la costruzione dello stabilimento Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco dove si sarebbe costruita l’Alfasud. Nel gennaio del 1970 Umberto Agnelli affianca come amministratore delegato della FIAT l’ing. |
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Bono (destinato a dimettersi dalla carica l’anno successivo). In questo modo la famiglia Agnelli prende le leve del comando direttamente nelle proprie mani. Nello stesso anno viene inaugurato lo stabilimento di Termini Imerese e si decide di avviare la costruzione di diversi nuovi stabilimenti al sud (Cassino, Termoli, Bari, Sulmona, Vasto, Lecce, Nardò e Brindisi): in questo modo, oltre a valersi di cospicui finanziamenti pubblici, la FIAT pone le premesse per "decongestionare" la concentrazione operaia di Torino ed avvalersi di manodopera più docile. Di maggiore importanza strategica è un altro tipo di risposta alle lotte operaie: l’avvio dell’automazione in fabbrica. Il punto di vista della FIAT è correttamente descritto da Castronovo: "si trattava di non arroccarsi nella difesa ad oltranza del lavoro di tipo fordista, che avrebbe continuato a generare motivi sempre più aspri e pregnanti di conflittualità operaia e dato modo al sindacato di tenere sotto continua pressione l’azienda, bensì di sperimentare nuove tecnologie che rendessero più flessibili, se non tutte, quantomeno le fasi più complesse e pesanti della lavorazione. Si pensava in pratica che, più presto si fosse proceduto sulla via dell’automazione, più presto sarebbe calata la forza d’urto del sindacato e cresciute invece le capacità d’iniziativa e di comando della direzione d’impresa" . E in effetti le cose sarebbero andate proprio così.
Intanto, il decennio si apre all’insegna della crisi: con la svalutazione del dollaro, nel 1971, salta il regime dei cambi fissi e più in generale il sistema di Bretton Woods, con il corollario di una reviviscenza di misure protezionistiche, a cominciare dagli Stati Uniti. Crolla il tasso di accumulazione (che da allora non ha più raggiunto i livelli conosciuti nel decennio precedente). Per quanto riguarda specificamente il settore automobilistico, si avvicina la saturazione del mercato (con un ritmo di crescita della domanda per gli anni Settanta stimato in 2-3%, a fronte dell’8-9% del decennio precedente), e con essa una classica crisi da sovrapproduzione. Poi, a mettere in ginocchio il settore, verrà anche la crisi petrolifera (1973), che colpirà in misura particolarmente severa proprio la FIAT.
Il bilancio 1973, per la prima volta da molti anni, è in perdita (-150 miliardi di lire nel settore auto). Il 2 ottobre 1974 la FIAT pone in cassa integrazione 65.000 operai, riducendo improvvisamente la capacità produttiva di un terzo. Contemporaneamente, per ristrutturare il debito (i debiti a breve ammontavano a 1.800 miliardi), viene assunto Cesare Romiti. Già in questa fase emerge un problema che si riproporrà periodicamente sino ai giorni nostri: il nucleo di controllo della FIAT, composto dalla famiglia Agnelli per il tramite dell’IFI, non è in grado di affrontare una ricapitalizzazione. Si sceglie di fatto la strada opposta: diversificare (anche attraverso operazioni di scorporo di ramo d’azienda), con l’obiettivo di giungere entro il 1985 a realizzare il 50% del fatturato del gruppo in un settore diverso dall’auto. La situazione del settore auto, intanto, non migliora: lo stesso Gianni Agnelli ammetterà che "il 1975 è stato per il settore auto l’anno più difficile dalla fine della guerra"; difficile dargli torto, con vendite in calo del 25%, e la FIAT precipitata al 10° posto tra i produttori automobilistici mondiali.
Nel 1976, mentre la crisi si aggrava ulteriormente, viene cooptato nel vertice del gruppo Carlo De Benedetti. Ma ben presto sarà costretto a fare le valige, lasciando di fatto campo libero a Romiti. Al di là di faide manageriali poco edificanti, il motivo del benservito a De Benedetti risiede nel fatto che la sua strategia prevedeva un importante aumento di capitale da parte dell’IFI. Che però era a sua volta indebitata. Sarebbe quindi stato necessario far ricorso direttamente al mercato, con il risultato di diluire la quota della FIAT in mano alla famiglia Agnelli. E questa ritenne che fosse più comodo mandar via l’ingegnere. L’aumento di capitale poi fu fatto, facendo sottoscrivere ai libici della Lafico un 10% circa di azioni ordinarie FIAT, ma con clausole contrattuali che garantivano all’IFI di mantenere saldamente il controllo della società. Ancora una volta, la proprietà familiare della FIAT era salva. In compenso, la situazione della FIAT continuò a peggiorare anche in presenza di una ripresa del mercato, a partire dal 1978.
Il 1979 si apre con la nomina dell’ing. Ghidella a capo di Fiat Auto e con una ripresa degli investimenti nell’auto (che si attestano al 31% degli investimenti del gruppo, contro il misero 20% di tre anni prima). Ma il fatto più significativo di quell’anno riguarda le relazioni industriali, e consiste nel licenziamento di 61 operai, accusati di essere violenti o addirittura terroristi: in realtà, in sede giudiziale i licenziamenti saranno contestati uno per uno. Ormai, però il test era andato a segno: anche perché lo sciopero contro i licenziamenti era sostanzialmente fallito.
Nel 1980 la crisi dell’auto, anche grazie al secondo shock petrolifero, assume proporzioni mondiali e coinvolge tanto i produttori americani quanto gli europei (con la sola eccezione della Volkswagen). Quanto alla FIAT, l’indebitamento (6.800 miliardi) è ormai pari al fatturato e più del doppio del patrimonio netto. A questo punto Umberto Agnelli chiede al governo due cose: la svalutazione della lira e la libertà di licenziare. La prima richiesta non andrà a buon fine, per quanto riguarda la seconda la FIAT farà da sé. A luglio Umberto Agnelli si dimette da amministratore delegato. Gli subentra Romiti, che l’11 settembre annuncia il licenziamento di 14.400 lavoratori, successivamente trasformato in cassa integrazione a zero ore per 23.000 lavoratori per due anni. Inizia uno sciopero di 35 giorni con blocco degli stabilimenti, che termina con una bruciante sconfitta, anche a seguito della marcia dei capi intermedi contro lo sciopero. I 23.000 lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore (che presto diventeranno 33.000), tra cui centinaia di delegati di fabbrica, resteranno fuori dalla FIAT sino al 1987, in violazione di ogni accordo; al loro rientro, saranno collocati in "reparti confino". Centocinquanta di loro si toglieranno la vita. Comincia un periodo di dura restaurazione in fabbrica, ed una svolta a destra nel Paese.
Intanto, il decennio si apre all’insegna della crisi: con la svalutazione del dollaro, nel 1971, salta il regime dei cambi fissi e più in generale il sistema di Bretton Woods, con il corollario di una reviviscenza di misure protezionistiche, a cominciare dagli Stati Uniti. Crolla il tasso di accumulazione (che da allora non ha più raggiunto i livelli conosciuti nel decennio precedente). Per quanto riguarda specificamente il settore automobilistico, si avvicina la saturazione del mercato (con un ritmo di crescita della domanda per gli anni Settanta stimato in 2-3%, a fronte dell’8-9% del decennio precedente), e con essa una classica crisi da sovrapproduzione. Poi, a mettere in ginocchio il settore, verrà anche la crisi petrolifera (1973), che colpirà in misura particolarmente severa proprio la FIAT.
Il bilancio 1973, per la prima volta da molti anni, è in perdita (-150 miliardi di lire nel settore auto). Il 2 ottobre 1974 la FIAT pone in cassa integrazione 65.000 operai, riducendo improvvisamente la capacità produttiva di un terzo. Contemporaneamente, per ristrutturare il debito (i debiti a breve ammontavano a 1.800 miliardi), viene assunto Cesare Romiti. Già in questa fase emerge un problema che si riproporrà periodicamente sino ai giorni nostri: il nucleo di controllo della FIAT, composto dalla famiglia Agnelli per il tramite dell’IFI, non è in grado di affrontare una ricapitalizzazione. Si sceglie di fatto la strada opposta: diversificare (anche attraverso operazioni di scorporo di ramo d’azienda), con l’obiettivo di giungere entro il 1985 a realizzare il 50% del fatturato del gruppo in un settore diverso dall’auto. La situazione del settore auto, intanto, non migliora: lo stesso Gianni Agnelli ammetterà che "il 1975 è stato per il settore auto l’anno più difficile dalla fine della guerra"; difficile dargli torto, con vendite in calo del 25%, e la FIAT precipitata al 10° posto tra i produttori automobilistici mondiali.
Nel 1976, mentre la crisi si aggrava ulteriormente, viene cooptato nel vertice del gruppo Carlo De Benedetti. Ma ben presto sarà costretto a fare le valige, lasciando di fatto campo libero a Romiti. Al di là di faide manageriali poco edificanti, il motivo del benservito a De Benedetti risiede nel fatto che la sua strategia prevedeva un importante aumento di capitale da parte dell’IFI. Che però era a sua volta indebitata. Sarebbe quindi stato necessario far ricorso direttamente al mercato, con il risultato di diluire la quota della FIAT in mano alla famiglia Agnelli. E questa ritenne che fosse più comodo mandar via l’ingegnere. L’aumento di capitale poi fu fatto, facendo sottoscrivere ai libici della Lafico un 10% circa di azioni ordinarie FIAT, ma con clausole contrattuali che garantivano all’IFI di mantenere saldamente il controllo della società. Ancora una volta, la proprietà familiare della FIAT era salva. In compenso, la situazione della FIAT continuò a peggiorare anche in presenza di una ripresa del mercato, a partire dal 1978.
Il 1979 si apre con la nomina dell’ing. Ghidella a capo di Fiat Auto e con una ripresa degli investimenti nell’auto (che si attestano al 31% degli investimenti del gruppo, contro il misero 20% di tre anni prima). Ma il fatto più significativo di quell’anno riguarda le relazioni industriali, e consiste nel licenziamento di 61 operai, accusati di essere violenti o addirittura terroristi: in realtà, in sede giudiziale i licenziamenti saranno contestati uno per uno. Ormai, però il test era andato a segno: anche perché lo sciopero contro i licenziamenti era sostanzialmente fallito.
Nel 1980 la crisi dell’auto, anche grazie al secondo shock petrolifero, assume proporzioni mondiali e coinvolge tanto i produttori americani quanto gli europei (con la sola eccezione della Volkswagen). Quanto alla FIAT, l’indebitamento (6.800 miliardi) è ormai pari al fatturato e più del doppio del patrimonio netto. A questo punto Umberto Agnelli chiede al governo due cose: la svalutazione della lira e la libertà di licenziare. La prima richiesta non andrà a buon fine, per quanto riguarda la seconda la FIAT farà da sé. A luglio Umberto Agnelli si dimette da amministratore delegato. Gli subentra Romiti, che l’11 settembre annuncia il licenziamento di 14.400 lavoratori, successivamente trasformato in cassa integrazione a zero ore per 23.000 lavoratori per due anni. Inizia uno sciopero di 35 giorni con blocco degli stabilimenti, che termina con una bruciante sconfitta, anche a seguito della marcia dei capi intermedi contro lo sciopero. I 23.000 lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore (che presto diventeranno 33.000), tra cui centinaia di delegati di fabbrica, resteranno fuori dalla FIAT sino al 1987, in violazione di ogni accordo; al loro rientro, saranno collocati in "reparti confino". Centocinquanta di loro si toglieranno la vita. Comincia un periodo di dura restaurazione in fabbrica, ed una svolta a destra nel Paese.
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Le calcolatrici tascabili
La prima calcolatrice portatile, introdotta nel gennaio 1971, era la Sharp EL-8 commercializzata anche come Facit 1111. Pesava circa mezzo chilogrammo, aveva un display fluorescente a vuoto, batterie ricaricabili NiCd e inizialmente veniva venduta per 395 dollari. La prima calcolatrice portatile di piccole dimensioni di produzione statunitense, la Bowmar 901B (chiamata comunemente The Bowmar Brain, dall'inglese Il cervello Bowmar), venne commercializzata nell'autunno del 1971 al costo di 240 dollari La prima calcolatrice tascabile con funzioni di tipo scientifico e che poteva quindi sostituire un regolo calcolatore fu l'HP-35 della Hewlett-Packard, commercializzata nel 1972 al prezzo di 395 dollari. Essa utilizzava, come la maggior parte delle successive calcolatrici di progettazione HP, la notazione polacca inversa (RPN) per l'immissione dei calcoli da eseguire. Nel 1973, Texas Instruments introdusse la SR-10 (dove SR significava slide rule, ovvero regolo calcolatore), calcolatrice portatile con sistema di immissione algebrico (il sistema tradizionale da cui la RPN differisce). Questa calcolatrice fu seguita poi dalla SR-11 e infine dalla TI-30. |
La prima calcolatrice tascabile programmabile fu la HP-65 del 1974, era dotata di una memoria capace di 100 istruzioni e poteva memorizzare e richiamare programmi tramite un lettore di schede magnetiche incorporato. Un anno dopo l'HP-25C introdusse una memoria interna permanente.
Il lego
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La lavatrice
Forse non erano favolosi come si dice, gli anni Sessanta, ma il fermento c’era. L’economia cresceva, la tv insegnava l’italiano agli italiani, le donne si mettevano numerose al volante. Il manovale Marcovaldo, di Italo Calvino, aveva le tasche vuotema portava la famiglia in gita al supermarket. La pillola anticoncezionale non era ancora arrivata, per quella bisogna aspettare gli anni Settanta. La lavatrice sì, ed è stata una rivoluzione. Fra tutti i comfort della vita moderna, la macchina per il bucato merita un riconoscimento speciale. Maglietta-calzino-asciugamano. Tovagliolo-calzino- jeans. Il cestello gira e oggi nessuno perde tempo a guardare il groviglio di panni che viene lavato e strizzato. Eppure le donne del boom si sono sedute davanti alla prima lavabiancheria con gli occhi sgranati. Quel getto d’acqua spinto a forza tra le fibre dei tessuti, insieme allo sporco, si portava via anche il peso del lavoro domestico più gravoso. Era il miracolo del progresso che si compiva tra le mura di casa. Una tappa decisiva per l’emancipazione. |
L’ultima frontiera hi-tech insegue un «sistema di lavaggio avanzato a microgravità», capace di funzionare sulla Stazione spaziale internazionale, come vorrebbe la Nasa. Ma è sulla Terra che della lavatrice c’è davvero bisogno, non nello spazio. In Italia i panni sporchi li laviamo in famiglia e questo elettrodomestico lo teniamo chiuso nel bagno: oggi è a risparmio energetico, a carica dall’alto, così compatto e silenzioso da non solleticare più fantasie erotiche, ma sbagliare un lavaggio è quasi impossibile.
A liberarci è stata la lavatrice». È d’accordo Vittorio Marchis del Politecnico di Torino, autore di 150 anni di invenzioni italiane e della pièce teatrale Autopsia di una lavatrice. «Nella società post-industriale dimentichiamo l’importanza degli oggetti pesanti, il loro spazio culturale», sostiene lo storico della tecnologia. La lavabiancheria è più importante di Internet, rilancia Ha-Joon Chang della Cambridge University, autore di 23 things they don’t tell you about capitalism (Bloomsbury Press, 2010). L’impatto del web è limitato a una minoranza di fortunati, ma sono gli elettrodomestici che hanno consentito alle donne di uscire di casa, raddoppiando virtualmente la forza lavoro. Eppure tutti conoscono il nome del papà dell’iPhone, tanti sanno indicare anche l’inventore della lampadina, della radio, del parafulmine. Ma chi ha inventato la lavatrice?
Ma per decollare la lavatrice deve diventare elettrica. Siamo arrivati al 1908 e ad Alva Fischer, la sua macchina lava bene ma ha un difetto: l’acqua bagna i contatti. Problema risolto nel 1930, inserendo il tamburo all’interno di un contenitoremetallico. Il primomodello automatizzato viene venduto in America dalla Bendix Corporation nel 1937, con dieci anni di anticipo sulla General Electric. Il boom commerciale esplode in Europa alla fine degli anni Cinquanta e nel 1967 l’Italia è diventata il maggior produttore di lavatrici del continente. La Candy ne sforna una ogni 15 secondi, la ditta rivale imperversa nel Carosello: «Castor lavami!». Poi il primato passa a Zoppas e infine a Zanussi. Si racconta che la moglie di De Gaulle fece una battaglia contro l’industria di Pordenone perorando la causa delle lavatrici francesi.
Chi negli anni Sessanta era un ragazzino sorride ripensando a Calimero e «Ava come lava». Chi ha letto Calvino ricorda la schiuma iridata che un giorno invade il cielo cittadino, cancellando il fumo delle ciminiere. Le cassette della posta traboccavano di buoni acquisto per detersivi. «Foglietti con disegni verdi rosa celeste arancione promettevano candidi bucati a chi usava Spumador o Lavolux o Saponalba o Limpialin». I figli di Marcovaldo ne facevano incetta, progettavano di vendere i flaconi omaggio, si vedevano già milionari. L’affare però sfuma. Michelino, Filippetto e Pietruccio si disfano del bottino buttando nel fiume una soffice nuvola bianca. Che saponata. E che invenzione letteraria. Ma a pensarci bene la lavatrice un po’ magica lo è veramente: nel cestello infiliamo biancheria e ne tiriamo fuori tempo libero.
A liberarci è stata la lavatrice». È d’accordo Vittorio Marchis del Politecnico di Torino, autore di 150 anni di invenzioni italiane e della pièce teatrale Autopsia di una lavatrice. «Nella società post-industriale dimentichiamo l’importanza degli oggetti pesanti, il loro spazio culturale», sostiene lo storico della tecnologia. La lavabiancheria è più importante di Internet, rilancia Ha-Joon Chang della Cambridge University, autore di 23 things they don’t tell you about capitalism (Bloomsbury Press, 2010). L’impatto del web è limitato a una minoranza di fortunati, ma sono gli elettrodomestici che hanno consentito alle donne di uscire di casa, raddoppiando virtualmente la forza lavoro. Eppure tutti conoscono il nome del papà dell’iPhone, tanti sanno indicare anche l’inventore della lampadina, della radio, del parafulmine. Ma chi ha inventato la lavatrice?
Ma per decollare la lavatrice deve diventare elettrica. Siamo arrivati al 1908 e ad Alva Fischer, la sua macchina lava bene ma ha un difetto: l’acqua bagna i contatti. Problema risolto nel 1930, inserendo il tamburo all’interno di un contenitoremetallico. Il primomodello automatizzato viene venduto in America dalla Bendix Corporation nel 1937, con dieci anni di anticipo sulla General Electric. Il boom commerciale esplode in Europa alla fine degli anni Cinquanta e nel 1967 l’Italia è diventata il maggior produttore di lavatrici del continente. La Candy ne sforna una ogni 15 secondi, la ditta rivale imperversa nel Carosello: «Castor lavami!». Poi il primato passa a Zoppas e infine a Zanussi. Si racconta che la moglie di De Gaulle fece una battaglia contro l’industria di Pordenone perorando la causa delle lavatrici francesi.
Chi negli anni Sessanta era un ragazzino sorride ripensando a Calimero e «Ava come lava». Chi ha letto Calvino ricorda la schiuma iridata che un giorno invade il cielo cittadino, cancellando il fumo delle ciminiere. Le cassette della posta traboccavano di buoni acquisto per detersivi. «Foglietti con disegni verdi rosa celeste arancione promettevano candidi bucati a chi usava Spumador o Lavolux o Saponalba o Limpialin». I figli di Marcovaldo ne facevano incetta, progettavano di vendere i flaconi omaggio, si vedevano già milionari. L’affare però sfuma. Michelino, Filippetto e Pietruccio si disfano del bottino buttando nel fiume una soffice nuvola bianca. Che saponata. E che invenzione letteraria. Ma a pensarci bene la lavatrice un po’ magica lo è veramente: nel cestello infiliamo biancheria e ne tiriamo fuori tempo libero.
.. ma era anche il tempo della cinepresa e ci divertivamo a fare filmetti amatoriali con la famosa Super-8. (esempio video sotto)
Cinepresa portatile per usi amatoriali molto semplice da usare e leggera, utilizzava pellicole formato Super 8 in caricatori da 15m.
Intorno al 1965 nasce la pellicola Super 8, con perforazioni ancora più piccole e 15m di pellicola racchiusa in caricatori in plastica di facile uso. I formati 8mm potevano essere arricchiti da bande magnetiche contenenti il sonoro applicate sulle pellicole sviluppate. Nel 1973 nasce invece il Super8 Sonoro con banda magnetica per la registrazione simultanea. Le cineprese e i proiettori seguirono l'evoluzione delle pellicole, diventando sempre più piccoli e maneggevoli, adattandosi ai nuovi formati disponibili (alcuni proiettori potevano leggere tutti i formati 8mm). Dal punto di vista tecnico l'evoluzione di obiettivi, diaframmi, otturatori, telemetri, ottiche porterà ad apparecchi sempre più accessoriati ma anche di facile uso soprattutto per il cineasta amatoriale. La massima diffusione delle ultime cineprese Super 8 si ebbe tra il 1980 e il 1982. Nel 1985 la produzione cessò a causa dell'avvento del nastro magnetico. Oggi a sua volta superato dalle videocamere digitali. per saperne di più: |
la spiaggia di San Benedetto del Tronto 1972
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Cinepresa in metallo e plastica di piccole dimensioni, di forma parallelepipeda con bordi arrotondati, con impugnatura ergonomia in plastica nera e maniglia in cuoio. All'impugnatura è collegata una maniglia in plastica. E' presente in una borsa rigida in pelle e velluto con tracolla in plastica e chiusura in metallo. All'interno dell'apparecchio si ha un motore elettrico alimentato con due batterie da 1,5V. Sul lato destro è inserito un mirino con messa fuoco e, sotto, il vano porta batterie, chiuso da un coperchio in plastica. Sul visore si può applicare un paraluce in Cinepresa portatile per usi amatoriali. Molto semplice da usare e leggera, utilizzava pellicole formato Super 8 in caricatori da 15m. La cinepresa è una macchina che impressiona una sequenza di immagini fotografiche su una pellicola continua.gomma e plastica. Sull'altra parete laterale si ha un contametro. Sopra, una levetta permette di selezionare diverse tipologie di soggetti: luce del sole, ritratto. La parete posteriore è incernierata nella parte alta ed apribile per l'inserimento della cartuccia contenente la pellicola Super 8. All'interno un ingranaggio sporgente si incastra in un apposito dispositivo rotante nella cartuccia che permette l'avanzamento della pellicola. La cartuccia ha forma quadrata con bordi arrotondati e la pellicola è tutta contenuta all'interno tranne un breve tratto. In corrispondenza del punto dove la pellicola emerge dalla cartuccia, è inserita una guida che permette di farla scorrere dietro all'obiettivo. La velocità della pellicola è di 18 fotogrammi al secondo. Sulla parete frontale è inserito, al centro, l'obiettivo Elmo Zoom 1:1,8 f=9,5-30mm, in alto un esposimetro. L'obiettivo ha messa a fuoco variabile da 5 a 30 (infinito) ft e zoom per distanze focali da 9,5 a 30 mm. Messa a fuoco e zoom si regolano direttamente sull'obiettivo. Sotto alla cinepresa, è presente un foro filettato in cui è avvitata l'impugnatura che va collegata ad un apposita presa sulla cinepresa. Davanti all'impugnatura un tasto avvia la ripresa. E' inoltre presente una borsa in pelle con serratura e tracolla per il trasporto.
piu info |
per ingrandire: tasto destro del mouse sulla foto e scegliere apri in un'altra finestra o linguetta
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Campo Del Duca 1975
Aerea di Ascoli 1974 - piazza Immacolata in basso a destra